TELENOVELA
Produzione CTT e TSV per GEA.22
testo
Riccardo Favaro
con
Angelo Callegarin, Alex Cendron, Irene Curto, Ruggero Franceschini, Giacomo Martini, Miriam Russo, Laura Serena, Samantha Silvestri
regia
Ruggero Franceschini, Francesca Merli, Davide Strava
assistente alla regia
Enrico Frisoni
costumi
Francesca De Santis
light design
Paolo Pollo Rodighiero
sound design
Giacomo Benvenuto e Marco Papparotto – I Fidanzati della Morte
assistente costumista
Alice Manente
responsabile di produzione
Marta Vianello
co-produzione
Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
Comitato Teatro Treviso
con il supporto di
Kaliscopio Teatro Officina | Binario 1
Cosa accadrebbe se, in un dato momento, la parola femminile scomparisse? Se di colpo, senza ragioni apparenti, tutte le donne del mondo smettessero di parlare? Telenovela immagina, come in uno specchio deformato, le sorti di un mondo condannato a mettere a nudo le proprie violente contraddizioni.
Il Comitato Teatro Treviso presenta la sua prima creazione, nata da due anni di lavoro insieme su temi da sempre al centro del festival GEA.
LO SPETTACOLO
“Il patriarcato è un costrutto sociale storico,
quindi come ha avuto un inizio, avrà anche una fine.”
Gerda Lerner, “Creation of Patriarchy”, 1986
Oggi si utilizza spesso la parola “patriarcato” in riferimento ad alcune dinamiche relazionali e sociali secondo le quali l’uomo ha assunto, spesso con la forza, un potere superiore alla donna, e per spiegare molti problemi e ingiustizie della società contemporanea, non solo Occidentale. Il termine patriarcato si riferisce a un sistema storico-sociale eretto nel corso degli ultimi millenni, creato col passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, dalla caccia/raccolta alla coltivazione/allevamento, che produsse un surplus di risorse.
Nel corso dei secoli, la gestione di queste risorse fu sempre riservata a chi possedeva il monopolio della violenza, della forza di tipo muscolare, per la quale gli uomini risultarono in vantaggio. Le donne furono relegate alla cura della prole; la loro sessualità e capacità riproduttiva divennero un oggetto di scambio per gli uomini, che si appropriarono di loro come della terra dei nemici.
Col passare dei millenni, questa gerarchia si è cristallizzata, rendendo le donne merce umana, e facendo disimparare agli uomini la cura. Infatti, i soggetti più deboli come bambini e anziani venivano affidati quasi esclusivamente alle attenzioni femminili: molte professioni storicamente si basano su questo principio, basti pensare alle professioni di infermiera o maestra ad esempio.
In questo senso, le vittime del patriarcato siamo tutti e tutte, essendo esso un sistema di gerarchia dove chi è più violento ha il potere e dove la cura è sintomo di debolezza. Un sistema piramidale, competitivo, non collaborativo, nel quale un uomo che eserciti la gentilezza e la non resistenza, mettendo in campo un’energia di accoglienza, non trova posto.
Questa è storia. Fredda, oggettiva, lontana. Ma cosa significa per noi oggi?
Qual è la manifestazione concreta di queste dinamiche tra sessi e generi diversi?
Come si sono declinate nelle nostre città, nel passato recente?
Come sono percepite da chi le vive oggi? Qual è l’orizzonte che si prospetta?
Analizzando e riscoprendo da dove veniamo, possiamo tracciare un disegno del
futuro che ci attende?
Partendo da queste domande, il Comitato Teatro Treviso, in coproduzione con il Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e con il coinvolgimento del drammaturgo Ricc-ardo Favaro, ha intrapreso un processo creativo che ha portato allo spettacolo Telenovela, che verrà in anteprima al Teatro Mario Del Monaco durante il festival GEA.22.
IL TESTO
Quando il Comitato Teatro Treviso mi ha chiamato, non sarei mai stato capace di immaginare che, un giorno, saremmo arrivati a Telenovela. Questo perché, inizialmente, la richiesta è stata quella di lavorare alla stesura di un testo originale che gravitasse attorno ad un tema preciso, tema che qui sintetizzerei così: lo spettro di un sistema matriarcale che possa sovvertire l’ordine politico e sociale in cui l’Occidente è ancora oggi impantanato. È da sempre molto complesso, per il mio modo di intendere la scrittura, “cominciare” da un tema. Se non altro perché i temi, quasi per statuto, tendono ad essere ampi, universali e orizzontali, tutti attributi tutto sommato poco affini al teatro, che vive la contraddizione d’essere invece limitato, particolare ma proprio per questo verticale. Così, fin dai primi scambi, ho ritenuto opportuno votare la ricerca del gruppo al dubbio: possibile che nella nostra civiltà, oltre alla rovinosa decadenza dei costumi, praticamente da sempre regolamentati dal “maschio”, non vi sia una questione ulteriore, più ambigua, connessa alle deformazioni che il potere stesso impone? Possibile forse che i tratti “patriarcali” di quella violenza non siano, in fondo, necessità a priori che la natura del dominio richiede? Nella Tragedia di Macbeth di William Shakespeare, come è noto, la Lady non fa altro che assumere le redini della scelta, della decisione politica che spetta al marito, spingendolo a commettere tutte le atrocità necessarie per ascendere al trono: assume le redini e cessa di vacillare. E questo come accade? Tragicamente, la Lady somatizza il comando. Non diventa “uomo” nel corpo, non v’è sotto alcuna questione esclusivamente di genere: la sua carne, così come la sua possibilità generatrice, si ribaltano del tutto, annullandosi, facendo sì che lei immoli nel corpo le vittime che il marito miete nel mondo. Di fatto ho pensato di proporre alla compagnia un testo che contemplasse, in qualche maniera, questo profondo sospetto, pur ancorandosi a dati di realtà che siano quanto più familiari a pubblico e artisti del nostro tempo. È nata una forma per molti aspetti vicina alla commedia, dovendo a grandi linee categorizzare: quasi un esperimento comico. Perché la prima parte è di fatto un laboratorio, un gioco, in termini teatrali: la parola femminile scompare dal mondo, così, improvvisamente, con la stessa immediatezza di una trovata artisticamente integralista; tutte le donne che compaiono in scena non parlano più. Le conseguenze di tanta mancanza di senso (che è poi l’espressione migliore per descrivere quanto avviene, proprio perché viene rimosso un elemento fondante per leggere la realtà) sono distruttive e devastanti, perché gli uomini impazziscono. Le loro parole s’insozzano, si deturpano e si deformano al punto tale da farsi battute fasulle, stereotipate, artefatte: diventano, senza rendersene conto, personaggi di una telenovela. Posto in atto un sacrificio radicale e intimo, quello della parola, che con la sua assenza sradica dal mondo ogni certezza, s’impone così una seconda parte, un piccolo dramma di realtà che si occupa di indagare e problematizzare le stesse possibilità già emerse: la sceneggiatrice di una nota telenovela, tale Orizzonti Rossi, legge per la prima volta il copione della nuova stagione con l’attrice e l’attore principali. Tutto pare proseguire normalmente, se non fosse stato previsto, nella sceneggiatura, l’insorgere di un improvviso mutismo della protagonista: l’eroina della serie si ribella, smette di parlare, abbandona ogni battuta pur di minare alle fondamenta il sistema che la opprime. L’attrice, tuttavia, accoglie la novità con diverse perplessità e l’unica vera rivolta che compie è contro il progetto stesso dell’autrice. Accade così che un problema concreto, che sottende uno scontro quasi ideologico, si trasformi in una questione di portata universale: perché una rivoluzione sia piena, è necessario dire le parole giuste o arrivare anche a sacrificare le proprie, pur di abbattere le forme più autoritarie del linguaggio in atto? A chi spetta la decisione su quale sia la via migliore, senza correre il rischio di trasformarsi nella stessa sopraffazione patriarcale che vorremmo combattere? E c’è poi forse qualcosa, oltre le parole, capace di rendere del tutto vano questo dilemma? Dove recuperare l’origine di tanto smarrimento?
Riccardo Favaro
LA REGIA
Gli scenari che si aprono sul futuro nascono a volte da piccole pause tra le parole, da non detti che diventano più importanti dei detti, da frasi emerse nel privato che diventano manifesti. Chi è sensibile alle parole, chi le onora, riesce a scovare quelle intercapedini dove sono preannunciati i futuri schemi di pensiero, i futuri e mai stabili riassestamenti delle comunità. Subito dopo, a volte nello stesso momento, arrivano le domande, la cui risposta è necessariamente un nuovo assestamento, comunque fragile. Allora perché non decidere di stare in quello spazio tra la domanda e la risposta? Perché non parlare di patriarcato e matriarcato partendo da presupposti trasversali? La suggestione è arrivata dal lavoro collettivo di confronto alla base di questo – speriamo che lo sia – spettacolo. Ci siamo chiesti: se questa chiave trasversale, questa strada per capire temi così vasti, fosse il potere? Da lì siamo tornati alle parole – intuizione iniziale che continuava a risuonare – sulle quali il potere si fonda e delle quali si nutre. Abbiamo immaginato, grazie alle suggestioni dell’autore, che i nostri personaggi e i loro rapporti di prevaricazione e relazione mettessero in crisi e venissero messi in crisi dalle parole. Addirittura, in uno slancio quasi inverosimile, dalla rinuncia ad esse.
Davide Strava
Una regia collettiva, a tre, è un processo creativo di negoziazione continua. Il testo, composto da un drammaturgo solo, è stato al tempo stesso ispirato da improvvisazioni e proposte di attrici e attori. Abbiamo dunque creato un delicato sistema di equilibri per una spedizione leggera in territori dimenticati o inesplorati, fra saggi di Johann Jakob Bachofen e studi iconografici di Marija Gimbutas, fra poesie di Andrea Zanzotto e testi di bell hooks.
La Telenovela è un modo di rappresentare la realtà, e come tutte le rappresentazioni ne è un modello e la modella allo stesso tempo.
Così anche il teatro. Allə* artistə la responsabilità di scegliere cosa dire, e cosa far dire: e come tante madri e padri di un villaggio di un’isola lontanissima, o di un’astronave in un viaggio interstellare verso altre Terre, ci siamo presi tuttə cura di questo spettacolo, insieme.
Ruggero Franceschini
“Per avere potere bisogna toglierlo”.
Cosa fare allora? Urlare e puntare i piedi, oppure ammutolirsi magari per sempre?
Due sono i temi centrali di questo spettacolo: la soppressione della parola femminile e l’ipertrofia della parola maschile. In questa paradossale situazione si muovono i personaggi di Telenovela: uomini e donne che lottano per capire come si arriva alla deriva del potere. Le dinamiche di potere vengono analizzate prima all’interno di un domicilio borghese, un piccolo piccolissimo mondo ambientato negli anni ‘50, dove i protagonisti vivono e intessono le loro dinamiche di sopraffazione di natura fortemente patriarcale. In seguito, nel secondo atto, le stesse dinamiche vengono affrontate in un studio di produzione contemporaneo: siamo alla lettura a tavolino di una nuova telenovela che segnerà, forse, il futuro di questo prodotto culturale, prima destinato esclusivamente a un pubblico femminile e che ora mira ad essere rivoluzionario. Si tratta del sogno o forse dell’utopia di una sceneggiatrice, che affida a una nuova opera letteraria e televisiva la possibilità di generare un cambiamento. In questo dialogo continuo con i suoi attori, colei che allo stesso tempo è generatrice della parola avrà anche il diritto di toglierla, mettendo in atto un meccanismo di potere dove i ruoli sono invertiti. Nel dibattito continuo tra l’autrice e il suo cast, c’è chi romanticizza la lotta tra i generi e che pensa che l’eroismo sia quello di urlare ferocemente contro il proprio sopruso, e c’è chi, invece, pensa che nemmeno l’eroina di una soap-opera possa cambiare le sorti di questo mondo. Questo piccolo, piccolissimo mondo in cui la vita è infinita come nelle telenovele che guardavano le nostre nonne immaginando “nuovi paesaggi e orizzonti”. Ma nel nostro mondo, quello reale, quello degli autori di questa soap-opera, noi artisti di questo progetto siamo costretti a comprometterci ogni giorno, “perché no, non è un mondo candido il nostro”!
Una piccola comunità di uomini e donne: un autore, tre registə e otto attorə hanno messo in atto questo processo creativo in un dialogo continuo dove l’origine e la perdita della parola sono al centro.
Francesca Merli
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La piccola “e” rovesciata “ə” che incontrerete in questo sito si chiama “schwa”. Rappresenta il nostro tentativo di usare un linguaggio che non discrimini per genere, maschile e femminile, per favorire la costruzione di un clima di convivenza delle differenze. Una piccola proposta che permetta di parlare a tutte e tutti, cioè a tuttə, senza escludere nessunə.