commentiAMO TELENOVELA
Spettacolo visto al Teatro Mario Del Monaco di Treviso domenica 8 luglio 2022 – GEA.22
Recensione di Greta Nola, unə* dellə allievə di commentiAMO
“Se le parole si ammalano
non ci si può più fare niente”
Primo blocco, interno domestico, molto semplice, ordinato: divano, tavolo, qualche mobile, un ambiente familiare a tutti. Una donna annaffia le piante, il marito torna a casa da lavoro, è un inizio che sembra rispettare le norme del logico, ci pare tutto inquadrato in una certa razionalità, pur nonostante si inerpichi un litigio che ci mette subito in mostra il dramma di un matrimonio sbilanciato: lei è una donna senza scopo che vive per le decisioni del marito. Lui è severo e autoritario, con interrogatori al limite del poliziesco, ma fin qui affrontiamo questo sipario con lucidità. È tutto tradizionale, è tutto nella norma. C’è però una voce che si intromette nella scena, la manipola, la controlla, confonde il linguaggio dei personaggi portandoli a parlare a volte in modo estremamente drammatico o macchinoso, come se stessero seguendo un copione scritto. Un quadro di vita domestica con elementi anormali che la alienano dalla realtà logica, richiamando in uno strano modo “Rabbits” di David Lynch. C’è poi lo schermo a riflettere i pensieri dei personaggi, il non detto e le didascalie della scena, tra cui spesso compare la parola “silenzio”: un lungo, lunghissimo silenzio che arriva ad imprimersi sulla donna, o per meglio dire su tutte le donne.
Questo silenzio si rende evidente, assieme ai suoi effetti, nel secondo blocco, che viene inaugurato da un cambio di luce che vira da una qualità luminosa ad una più soffusa e bassa ma estremamente calda, tanto da far arrossire tutta la scena. Non solo la luce segna il passaggio verso una nuova dimensione, ma anche la musica, composta dalla band I Fidanzati della Morte, che ci conduce verso l’Apocalisse del mondo tradizionale che osserviamo dalla finestra di casa. È una rivoluzione che sradica i valori opprimenti che si facevano molto sentire soprattutto all’epoca in cui la storia è ambientata, gli anni ‘50 del Novecento. Si discute in seguito sull’illogicità di ciò che è accaduto: perché ammutolirsi quando si può gridare in faccia all’oppressore? Gridare sembra la via più forte e rivoluzionaria secondo il pensiero comune, perché solo così si può essere ascoltati; però questa soluzione crea solo più scontri e barriere. Invece eliminare la parola è ciò che fa crollare ogni muro: come il silenzio crea vuoto facendo collassare tutto, così collassano i valori, le certezze i rapporti. L’assenza di parola non permette infatti uno scambio tra gli individui e così le donne divengono indifferenti verso gli uomini, non li riconoscono più, questi arrivano quindi a non vedersi più riconosciuta un’identità e allora si ammalano e così il loro linguaggio. Se quello femminile sparisce (in senso vocale) quello maschile si deforma, si smembra, vive in una ripetizione nonsense e la scena si trasforma di conseguenza, passando dall’ordine al caos, ed è come vedere dei bambini mettere a soqquadro il soggiorno per giocare “alla guerra”. Così la scenografia si disfa, l’ambiente domestico diviene disordine puro. Il maschile vive una crisi, perché gli manca una controparte attraverso cui era solito riconoscersi. Senza di essa non vive più, e quindi muore.
Si chiude il sipario per riaprirsi sul secondo atto (terzo blocco) che è ambientato ai giorni nostri: tutto inizia con una certa logica, una normalità che sembra voler spiegare illogicità del primo atto. Ci troviamo davanti a tre nuovi personaggi: una sceneggiatrice dall’aspetto androgino in mezzo ad un maschile debole (l’attore) e ad un femminile forte (l’attrice). Stanno provando la lettura del copione di una telenovela, “Orizzonti Rossi”. I due attori non condividono le direzioni prese nel copione e propongono altre soluzioni, talvolta assurde, che non sono in grado però di creare un impatto tanto forte quanto la proposta di un silenzio collettivo e la sceneggiatrice continua ad avvalorare la sua tesi, a manipolare la scena come aveva fatto con la sua immaginazione (che abbiamo visto nel primo atto). Le didascalie sullo schermo ci riportano ai pensieri della sceneggiatrice, mentre gli attori discutono con lei per avere le battute, per avere la parola, e tutto ritorna irrazionale come prima. La scenografia è pressoché uguale a quella della prima sezione: ordinata, semplice ma con degli elementi che lo collegano più ad uno studio televisivo (è presente ad esempio una lavagnetta le cui scritte si proiettano di nuovo sullo schermo), ma in seguito anche questo spazio verrà messo in disordine. Il parlato è quotidiano e aderente al contesto contemporaneo, non si perde l’occasione di prendere in giro il modo di lavorare di attori legati al tanto disprezzato mondo della telenovela, spesso con finte recitazioni da attori ed attrici cosiddetti “cani”, che ci fanno venire in mente obbrobri come “Il segreto” o “Beautiful” e i conseguenti fenomeni di divismo televisivo.
Se il primo atto ci lascia nel caos verbale e mentale, il secondo sembra arrivare a sfiorarlo, ma non appena si palesa questa eventualità allora il maschio, il personaggio dell’attore, nel panico totale poiché ignorato, non riconosciuto dalla collega attrice e dalla sceneggiatrice, inizia a invocare aiuto. Ecco allora che giunge qualcuno in aiuto dell’attore, ma più che una risoluzione ai problemi creatisi apporta solo distruzione, ed irrompe violento come un terremoto (peraltro concretamente sentito in platea grazie all’ausilio di forti casse), il tutto accompagnato dal suono irregolare e dirompente di un pianoforte suonato dal vivo dal personaggio di Girl, la fidanzata dell’attore. Il corpo di polizia fa pulizia totale della scena: ogni cosa è portata via, le donne vengono arrestate e dopo l’imposizione dell’ordine violento rimane solo il vuoto. La scena si scurisce, illuminata da una luce fredda che lascia l’attore solo con il suo copione, disarmato e questa volta veramente senza nessuno che lo ascolti o gli parli. Ecco che la sua parola ritorna vagito che implora un ritorno al grembo materno, come un bimbo che si perde per strada.
*
La piccola “e” rovesciata “ə” che incontrerete in questo sito si chiama “schwa”. Rappresenta il nostro tentativo di usare un linguaggio che non discrimini per genere, maschile e femminile, per favorire la costruzione di un clima di convivenza delle differenze. Una piccola proposta che permetta di parlare a tutte e tutti, cioè a tuttə, senza escludere nessunə.
commentiAMO “IL CANTO DELLA CADUTA”
commentiAMO “IL CANTO DELLA CADUTA”